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I Makers: la possibile evoluzione dei bricoleur?
Gli americani stanno riscoprendo il piacere del “fare”. La realizzazione di prodotti unici e innovativi di alta qualità e con elevati livelli di personalizzazione è indicata da molti come la nuova frontiera della creatività. Tecnologia, condivisione, social, manualità insieme possono determinare un nuovo modo di intendere l’essenza stessa del fai da te ridefinendone i confini e le potenzialità: americanata o movimento da comprendere e far crescere?
Chris Anderson, direttore di Wired, rivista americana che si pone come filosofia editoriale essere i paladini dell’innovazione a tutto tondo, si è espresso chiaramente intitolando il suo ultimo libro “Makers: the new industrial revolution”. La tesi di fondo è semplice: se si applicano i concetti e le logiche proprie del mondo web 2.0 (collaborazione, condivisione, co-creazione) al mondo del “fare”, della produzione tipica del diy, ne derivano prodotti innovativi creati non più da un unico soggetto ma dalla community, che condivide e partecipa allo sviluppo del progetto risolvendo problemi che altrimenti non avrebbero potuto trovare soluzione.
E nel momento in cui il fenomeno si diffonde e si raggiunge una massa critica (relativamente facile da ottenere grazie alle logiche social di internet) c’è la possibilità reale e concreta di sviluppare attività di business e fondare nuove aziende produttive.
Confesso che la prima volta che ho letto dei makers sono rimasto decisamente perplesso. In una economia globale dove la Cina sta diventando il produttore di tutti i prodotti fisici del mondo, l’idea che il futuro della manifattura possa essere il neo-bricoleur proprio non lo riuscivo a capire: sarebbe come dire che la pizza è stata inventata a New York e che Cristoforo Colombo era spagnolo. E il tanto blasonato Made in Italy dove lo mettiamo?
I makers sono coloro, ha raccontato Chris Anderson al World Wide Rome svoltosi a marzo di quest’anno, “che fanno”, quelli cioè che si danno da fare e iniziano a produrre e distribuire da soli, sfruttando il web e le nuove tecnologie. “Why atoms are the new bits” è il titolo di un editoriale che Anderson pubblicava su Wired nel 2010, nel quale sottolineava la possibilità di ragionare in termini diversi e fuori dagli standard convenzionali sul tema della produzione.
Il saper fare viene nobilitato, lo sporcarsi le mani e l’avere qualche callo non è più un minus. Quello che cambia in modo radicale è l’approccio al mercato che avviene sfruttando le potenzialità di internet attraverso relazioni tra tutti coloro che condividono quella specifica passione.
Le stime indicano in oltre due miliardi le persone nel mondo connesse a internet. Pensare di trovare qualche migliaio di potenziali clienti non è poi così improbabile, anche se stiamo parlando delle produzioni più “strane” o particolari.
Visioni improbabili o futuro certo? Difficile dare una risposta nell’uno o nell’altro senso. La creatività e la manualità però fanno parte sicuramente del DNA dell’italiano. La riflessione che invito a fare è di guardare a questi fenomeni da una angolazione differente: il bricoleur può essere visto come un knowledge worker, i lavoratori della conoscenza, che uniscono al saper fare il sapere come distribuire e proporre al mercato secondo modalità alternative a quelle oggi praticate.
Ferramenta e produttori di prodotti per il fai da te dovrebbero essere interessati a un movimento di questa portata, perché possono giocare un ruolo fondamentale sia intermini di know how sia in termini di soluzioni produttive sempre più alla portata dei makers.
Il dibattito è particolarmente attivo anche in Italia. Diverse sono le occasioni per approfondire queste problematiche sia on line sia attraverso incontri e dibatti. Per cercare di capire se e come quanto appena illustrato può essere una strada concreta per uscire dalla tanto evocata crisi, consiglio la lettura di “Futuro artigiano” di Stefano Micelli, un libro (non un ossimoro) che analizza il contesto e la realtà italiana, offrendo una serie di chiavi di lettura molto interessanti e stimolanti.
Se la Cina si sta affermando come il sistema produttivo standard migliore al mondo, l’Italia potrebbe tranquillamente aspirare al ruolo di sistema produttivo di qualità eccellente, dove compromessi sui materiali, sul design e sulla cura del particolare non sono tollerati.
Gli esempi di prodotti italiani eccellenti apprezzati in tutto il mondo non mancano: ai modelli tradizionali di sviluppo oggi si può realmente pensare di affiancare modalità assolutamente nuove di design collaborativo e sistemi di prototipazione e produzione high tech. Il confine tra artigiano e bricoleur si riduce o banalmente perde di significato: è il talento, il saper fare del maker, che diventa l’elemento cruciale su cui basare il neo-modello di business. Comunicare e interagire in ambienti virtuali diventa il miglior modo per attivare quelle relazioni indispensabili per far apprezzare cosa si è in grado di realizzare e sviluppare il proprio business in modo originale.
Cosa fare quindi? La risposta è implicita nella domanda: fare!
Chris Anderson, direttore di Wired, rivista americana che si pone come filosofia editoriale essere i paladini dell’innovazione a tutto tondo, si è espresso chiaramente intitolando il suo ultimo libro “Makers: the new industrial revolution”. La tesi di fondo è semplice: se si applicano i concetti e le logiche proprie del mondo web 2.0 (collaborazione, condivisione, co-creazione) al mondo del “fare”, della produzione tipica del diy, ne derivano prodotti innovativi creati non più da un unico soggetto ma dalla community, che condivide e partecipa allo sviluppo del progetto risolvendo problemi che altrimenti non avrebbero potuto trovare soluzione.
E nel momento in cui il fenomeno si diffonde e si raggiunge una massa critica (relativamente facile da ottenere grazie alle logiche social di internet) c’è la possibilità reale e concreta di sviluppare attività di business e fondare nuove aziende produttive.
Confesso che la prima volta che ho letto dei makers sono rimasto decisamente perplesso. In una economia globale dove la Cina sta diventando il produttore di tutti i prodotti fisici del mondo, l’idea che il futuro della manifattura possa essere il neo-bricoleur proprio non lo riuscivo a capire: sarebbe come dire che la pizza è stata inventata a New York e che Cristoforo Colombo era spagnolo. E il tanto blasonato Made in Italy dove lo mettiamo?
I makers sono coloro, ha raccontato Chris Anderson al World Wide Rome svoltosi a marzo di quest’anno, “che fanno”, quelli cioè che si danno da fare e iniziano a produrre e distribuire da soli, sfruttando il web e le nuove tecnologie. “Why atoms are the new bits” è il titolo di un editoriale che Anderson pubblicava su Wired nel 2010, nel quale sottolineava la possibilità di ragionare in termini diversi e fuori dagli standard convenzionali sul tema della produzione.
Il saper fare viene nobilitato, lo sporcarsi le mani e l’avere qualche callo non è più un minus. Quello che cambia in modo radicale è l’approccio al mercato che avviene sfruttando le potenzialità di internet attraverso relazioni tra tutti coloro che condividono quella specifica passione.
Le stime indicano in oltre due miliardi le persone nel mondo connesse a internet. Pensare di trovare qualche migliaio di potenziali clienti non è poi così improbabile, anche se stiamo parlando delle produzioni più “strane” o particolari.
Visioni improbabili o futuro certo? Difficile dare una risposta nell’uno o nell’altro senso. La creatività e la manualità però fanno parte sicuramente del DNA dell’italiano. La riflessione che invito a fare è di guardare a questi fenomeni da una angolazione differente: il bricoleur può essere visto come un knowledge worker, i lavoratori della conoscenza, che uniscono al saper fare il sapere come distribuire e proporre al mercato secondo modalità alternative a quelle oggi praticate.
Ferramenta e produttori di prodotti per il fai da te dovrebbero essere interessati a un movimento di questa portata, perché possono giocare un ruolo fondamentale sia intermini di know how sia in termini di soluzioni produttive sempre più alla portata dei makers.
Il dibattito è particolarmente attivo anche in Italia. Diverse sono le occasioni per approfondire queste problematiche sia on line sia attraverso incontri e dibatti. Per cercare di capire se e come quanto appena illustrato può essere una strada concreta per uscire dalla tanto evocata crisi, consiglio la lettura di “Futuro artigiano” di Stefano Micelli, un libro (non un ossimoro) che analizza il contesto e la realtà italiana, offrendo una serie di chiavi di lettura molto interessanti e stimolanti.
Se la Cina si sta affermando come il sistema produttivo standard migliore al mondo, l’Italia potrebbe tranquillamente aspirare al ruolo di sistema produttivo di qualità eccellente, dove compromessi sui materiali, sul design e sulla cura del particolare non sono tollerati.
Gli esempi di prodotti italiani eccellenti apprezzati in tutto il mondo non mancano: ai modelli tradizionali di sviluppo oggi si può realmente pensare di affiancare modalità assolutamente nuove di design collaborativo e sistemi di prototipazione e produzione high tech. Il confine tra artigiano e bricoleur si riduce o banalmente perde di significato: è il talento, il saper fare del maker, che diventa l’elemento cruciale su cui basare il neo-modello di business. Comunicare e interagire in ambienti virtuali diventa il miglior modo per attivare quelle relazioni indispensabili per far apprezzare cosa si è in grado di realizzare e sviluppare il proprio business in modo originale.
Cosa fare quindi? La risposta è implicita nella domanda: fare!